I gradi in arrampicata, un argomento ricco di spunti su cui riflettere, una vera e propria arma a doppio taglio per tutto il movimento della verticale! Di seguito riportiamo una lettera aperta scritta da Bertrand Lemaire e Roberto Rosica e pubblicata sul n°49 della rivista © Pareti del primo semestre del 2006. E' passato qualche anno ma il tempo sembra essersi fermato... Buona lettura a tutti!
Questa lettera nasce da un nostro disagio. Oggi sembra che l’arrampicata (alpinismo, falesia, blocchi, etc.) sia diventata soltanto un “affare di gradi”: basta aprire una rivista o visitare un sito internet, non si parla d’altro. Sentendosi quotidianamente aggrediti da questo fiume di cifre e lettere, abbiamo deciso di reagire, eliminando i gradi prima dai nostri discorsi poi dai nostri pensieri (si, è possibile!). Anche se qualcuno ci ha accompagnato nell’esperienza, la maggioranza non ha capito; ironia della storia, profanando il Dio Grado siamo diventati noi gli aggressori, come se togliendo i gradi avessimo cancellato la loro “ragione di scalare”. Senza pretendere di convincere nessuno (magari qualcuno…) e pur sapendo che con questa lettera finiremo direttamente nella categoria “vecchi rincoglioniti”, ecco le nostre motivazioni.
Fin dalle prime ore dell’Alpinismo, il “racconto della via fa” parte della via stessa. L’alpinista racconta le sue impressioni, le comunica agli altri – alpinisti e non – rendendoli partecipi della sua impresa. Sorge la prima domanda: è più importante il “racconto” o la via stessa (sembra che l’una senza l’altro non esista), il dire del fare…? Il “racconto” è una forma di letteratura, seppur minore, un curioso miscuglio di eroismo mitologico-alpino in cui è spesso difficile separare il vero dall’inventato. Del resto, la sua funzione non è stabilire “La Verità”, ma trasmettere un vissuto per definizione soggettivo. La montagna è letteratura; non a caso si parla(va) di “grande pagina di Alpinismo”. Quando Igor Koller descriveva un “passaggio delicato nel quinto tiro”, l’informazione importante non era “c’è un passaggio delicato nel quinto tiro” ma “Koller ha detto che…”.
Ancora: la montagna è terreno d’esplorazione, scoperta, non sai cosa ti aspetterà su quella parete che hai visto tante volte. Si tratta di mettersi in gioco fino in fondo, di usare tutte le proprie capacità di arrampicatore per riuscire a passare di là. Andre Heckmair dovette inventare nuovi ramponi per poter passare sulla Nord dell’Eiger, Vinatzer usava pedule di stoffa per avere sensibilità sulle lisce placche della Sud della Marmolada, e così via. Nessuno aveva mai detto o scritto su qualche via come si doveva fare! La roccia era là da millenni e qualcuno aveva voglia di scalarla, questo importava e nient’altro. L’ingegno dell’uomo, la sua creatività, la sua tenacia e bravura fecero il resto e presto si consumarono le grandi imprese della storia dell’alpinismo. I primi gradi dicevano poca cosa rispetto all’avventura, al rischio, alla difficoltà incontrata e alla bravura dell’alpinista. Provate a passare oggi sulla sud-ovest dell’Ortles lungo la via tracciata da Pichler nel 1804 e provate a dare un grado; o chiedetelo a Messner: cosa vi dirà? Poco o nulla! Ma l’uomo ha bisogno di certezze. Ha cercato (prima in montagna, poi in falesia e sui blocchi) di rendere tutto più omogeneo, tutto meno rischioso, tutto più “sportivo”; quindi misurabile usando parametri di confronto graduati e “oggettivi” – così dicono loro! – ad uso e consumo di tutti, dove l’oggettività data dal grado appunto sembra stilare una classifica di difficoltà. Così dai timidi D, TD, …, fino a questi surrealistici 7a+/7b! In montagna, non esiste più nessun racconto dato dal primo salitore o ripetitore della via, né roccia malsana da affrontare, né rischio di temporali. Il grado diventa l’attore protagonista, non più l’uomo! I gradi non sono il “male assoluto”, è il modo in cui vengono usati oggi che troviamo malsano. Il loro ruolo “ufficiale” – dare un’informazione sulla difficoltà di un passaggio, di una via – non è spesso che una maschera per nascondere la loro vera funzione: dire qualcosa di qualcuno, in generale sé stesso, a qualcun altro. I gradi non classificano i blocchi o le vie, ma classificano la gente. Certo, ciascuno di noi può avere bisogno di posizionarsi nel mondo, di creare una gerarchia, di sentirsi più forte di quell’altro, di sentirsi “il più forte”, di sentirselo dire da quell’altro, ecc.
È un atteggiamento molto comune: a scuola, al lavoro, in macchina… passiamo la vita a “posizionarci”, schiavizzati dal nostro ego che non si da mai pace. L’arrampicata è una delle poche “attività sportive” rimaste veramente libere. Non ci sono regole scritte, cronometri, giudici, servizio d’ordine… Ognuno può (e deve) costruirsi il proprio gioco, trovare i suoi valori, purché non impedisca agli altri di fare lo stesso. Ma la libertà ci fa paura, non siamo abituati. È più comodo essere schiavi, continuare a scambiarsi etichette, curare miseramente il nostro ego.
Non è un discorso da dilettanti dell’arrampicata. La ricerca della difficoltà è sempre stata e continua a essere (ieri in montagna e in falesia, oggi sui blocchi) una delle nostre principali fonti di motivazione; ce ne sono altre ma non è questo l’argomento. Come tanti arrampicatori, cerchiamo dei “problemi limite” per noi, cioè pezzi di roccia che ci richiedano un grosso sforzo mentale e fisico. Il punto è che siamo capaci di riconoscere/trovare questi “problemi” da soli, che siano o no affiancati da una cifra e una lettera. Lo stesso vale per chiunque scali regolarmente da un po’ di tempo, bisogna solo provarci. Si tratta solo di cambiare abitudine, di staccarsi dal giudizio deglia altri per conoscersi meglio. Lasciate a casa la vostra guida, smettete di dare retta al vostro guru preferito, e (ri)cominciate a leggere la roccia.
Alcuni arrampicatori, soprattutto principianti, ma non solo, obiettano che senza gradi non sarebbero stimolati nella prestazione, come se dovessero dare un senso al loro agire. È proprio questa domanda che riporta il problema non al grado del blocco o della via, ma al grado della persona appunto! Ed è decisamente triste che siano un numero e una lettera a dirci quanto siamo stati bravi, piuttosto che la consapevolezza di aver scalato al proprio limite impegnando tutte le proprie energie e conoscenze…
Il fare e il dire… piccolo breviario dell’impostore:
- “Ho fatto il 7a!”… Che significa? Hai fatto un 7a che ti sta particolarmente congeniale dopo averne provato cinquanta che non sei riuscito a fare? Riesci a fare più o meno tutti i 7a che provi? Sei andato a scalare in un posto dove “i gradi sono regalati” e lì ci sei riuscito? Chiaramente il discorso vale per tutti noi: provate a scrivere 6a, 8b oppure 9a… al posto di 7a.
- “È morfologico!”… Bella scoperta! Tutti i passaggi sono morfologici, l’arrampicata è per definizione morfologica. Ognuno tenta di utilizzare al meglio le sue “qualità” (scioltezza, dinamicità, forza, altezza, leggerezza, etc.) per risolvere un problema. L’uomo non è “misurabile”: chi si vuole misurare con gli altri usando i gradi sta soltanto misurando la propria stupidità.
- “Dov’è che c’è un 7a che posso fare?”…
- Quante vie “a vista”… dopo ore passate a spiare gli altri col binocolo; “al terzo tentativo”… dopo mesi di lavoro dall’alto. Perché i blocchi o le vie con i gradi più alti non sorgono quasi mai nei posti dove l’attività è culturalmente ben impiantata? Semplicemente perché dove scala un sacco di gente, i problemi nuovi sono subito provati da molte persone, i diversi metodi possibili vengono trovati rapidamente e di conseguenza i gradi sono più “omogenei”. Ma dicono sempre la stessa cosa: tu sei più forte di me e io sono più forte di lui. A Fontainebleau per esempio, cosa ci dicono i gradi (i numeri sono casuali): 6a = 10000 locali l’hanno fatto, 7a = 1000…, 8a = 100…, 8b = 10; nient’altro. Più si va verso l’alto, più l’approssimazione è grossolana; e più la probabilità di rivalutazione al ribasso è alta. Senza parlare dello stile che cambia: oggi in media i blocchi difficili fanno in media quindici movimenti, ieri ne facevano quattro. Ma si continua a usare la stessa scala, pur di poter continuare a diffondere l’unica informazione che conta: “pinco pallino è il più forte del mondo”.
L’arrampicata è cambiata. Era un’attività marginale, è diventato uno “sport di massa”. Gli spit ci sono ravvicinati; ci portiamo materassi sempre più grossi, e tutti vogliono essere parati. Ne prendiamo atto, non si può fermare il “progresso”. D’altronde, grazie ai materassi abbiamo potuto provare dei passaggi che prima non guardavamo nemmeno; sui blocchi alti la componente mentale è spesso fondamentale. Cosa ci dicono i gradi di tutto questo: poco e niente! Perciò abbiamo deciso di farne a meno. il blocco sta là; la linea ti piace; la provi; ci riesci o non ci riesci; punto. Altri stanno tentando strade diverse (per esempio ad Annot, dove i locali hanno creato un’altra scala di gradi). La nostra “soluzione” è sicuramente eccessiva, utopica. L’importante non è la risposta ma la domanda: a cosa servono i gradi?
Bertrand Lemaire e Roberto Rosica
Bertrand Lemaire e Roberto Rosica
1 commento:
Giustissimo!
Dopo tutto queste parole potevano solo essere partorite da due BIG dell'arrampicata Italiana e non solo!
Oramai non ci sono più gli Scalatori ma i Liberatori!
Qual'è la differenza?
-Il primo arrampica con passione aprezzando qualsiasi linea di qualsiasi grado
-Il secondo pensa solo al fare grado e sembra quasi disgustare le vie di grado inferiore al 7b.
Queste persone non capiscono li vero senso dell'arrampicata.
Personalmente,pur essendo poco che arrampico,ho capito una cosa:
Che non è importante essere il migliore ma dare il meglio di sè;
Personalmente preferisco liberare un 6b naturale di 30 mt che un 7b di 10 mt scavato,provarlo e riprovarlo finche non entra solo per vantarmi al bar di Roccamorice con altri scalatori di aver fatto quel grado!
La mia unica arma quando stò in parete è la passione e con essa nessuna catena,sosta o rimonto è impossibile :)
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